Non vi è un contesto né una ambientazione definita, non c’è uno spazio misurabile a fare da contenitore alle presenze – corpi, oggetti, simboli – ma sono queste a costruire da sé una spazialità, a definire i piani della visione, a condurre la lettura nelle opere grafiche di Daniela Savini. Le incisioni che la giovane artista presenta in occasione di questa mostra raccontano la personale evoluzione sentimentale e tecnica, il confronto con una lingua di forme, di segni, di toni, che matura prova su prova, piegata dall’indagine e modellata sulla ricerca, sulla propria via di impressioni e contenuti, di estetiche e di messaggi. È questa presenza di corpi, tradotta in forma di gesti, di sguardi, di posture, a condensare il nodo degli interrogativi dell’artista. Sono questioni intime, sono profondi dibattiti interiori a manifestarsi nei personaggi delle opere di Savini, resi con un delicato uso della tecnica della puntasecca, la maniera grafica preferita dall’artista e in grado di rendere un modellato morbido e vellutato, di minimi trapassi chiaroscurali.

La delicatezza della puntasecca e la sua trama vellutata sono però giocate in contrasto sia col nitore del foglio che emerge a risparmio, talvolta appena velato dall’inchiostro, sia con l’impattante presenza di neri sordi e profondi che fanno da contorno alle figure umane e agli oggetti. Questi scontri, oltre a indirizzare la nostra visione e a ritmare il peso ottico dell’intera scena, sembrano aumentare il tono di solitudine dei protagonisti delle puntesecche di Savini, il sentore di non concluso, di turbato che emerge dalle loro tensioni, dalle loro posture, dalla loro prepotente centralità. Non solo la dialettica di toni e di differenti texture di impressione, dovute alle differenti tecniche grafiche utilizzate, anche la calcolata gestione della composizione dell’immagine con inquadrature fotografiche, riprese di scorcio, tagli e troncamenti (come in Insieme o in Omaggio a F. Woodman), concorre all’interpretazione delle opere e ai sentimenti che queste sollecitano.

Alla luce che investe le figure, siano esse corpi di giovani, ma pure semplici ortaggi, pesci o altri alimenti come in Acqua e in Insieme II, spetta il ruolo primario nella strutturazione delle immagini, quasi tutte affidate alla gamma dal bianco ai grigi al nero e concentrate sulla solitudine di protagonisti senza tempo né spazio. La luce scorre così dai minuti dettagli, dalle carnosità di una foglia al calore di un tessuto sino alle grinze della pelle, da una parte definendo l’immanenza fisica, la presenza oggettiva, la realtà dell’essere cosa, dell’essere uomo, dall’altra sfumando, ammorbidendo, sfocando. Quasi allontanando quel senso di concretezza, di assoluto realismo che la padronanza del disegno e la sicurezza dei segni avevano invece realizzato. Forse anche invitando ad andare oltre alla realistica apparenza delle cose, alla sensibile pregnanza dell’essere, per intendere questa apparenza, semmai, come manifestazione o estroversione di una realtà più profonda.

Questo duplice effetto del valore luministico asseconda la ricerca e la poetica dell’artista, già delineata nella scelta di concentrare la propria espressione, la propria necessità comunicativa su singoli soggetti, eliminando dal piano limite della matrice e della conseguente stampa, ogni contesto spazio-temporale e ogni aggancio narrativo. Come la luce quindi costruisce le forme su cui l’immaginazione della Savini proietta i propri interrogativi, così l’opacità dei fondi concorre ad amplificare quel senso di non definito, di non risolto, di non strutturato che, come sentimento comune e sotterraneo, pervade l’ultima produzione grafica, e anche pittorica, dell’artista.

Sono spesso fondi opachi, privi di storicità e di direzioni, ambigui eppure altamente significanti, sia dal punto di vista visivo sia dal punto di vista concettuale. Visivamente contribuiscono a bilanciare il peso ottico dei soggetti fornendo loro una sorta di chiusura, di cornice o di strana spazialità; dirigono il nostro sguardo e amplificano l’isolamento dei corpi e delle forme; creano contrasti fra zone chiare rispetto altre molto buie; sono densi ed impattanti. Ma a leggerne il senso sembrano amplificare il tono di sospensione dell’immagine, sembrano in qualche modo proseguire quell’impressione di turbamento vissuto dai soggetti, personificato nei soggetti; come nelle tavole di Intimità e Tensione, dove l’intervento del fondo nero fa da quinta alla solitudine dei personaggi. Sono fondi e al contempo parte dei soggetti, sono quasi prosecuzione dei soggetti, pienamente partecipi essi stessi.

Le puntesecche raccolte per la mostra rendono in immagine il percorso esistenziale della Savini, affrontando tematiche legate sia all’individualità sia al rapporto con gli altri, concentrandosi sul singolo e sulla sua dimensione emotiva e sociale. I titoli delle opere, pure, contribuiscono nella loro sinteticità a richiamare la dimensione umorale ed emozionale più profonda, insistendo su termini che richiamano la sfera dell’individuo, la ricerca di una identità personale che vada al di là della sola manifestazione corporea. Nonostante non manchino opere dove il messaggio è condensato in un oggetto semplice e domestico, che si fa metafora, come possono essere ortaggi, il pane, i pesci, la ricerca grafica di Daniela Savini risolve nella sfera dell’umanità tutti i contenuti, gli interrogativi e le immaginazioni che la strutturano e la dirigono. Anche sul piano della manipolazione artistica, perché alle tecniche di incisione Savini affianca, nella medesima direzione e con gli stessi sentimenti, l’attività in campo pittorico, vivendo i due media artistici come paralleli binari del proprio percorso tecnico ed estetico.

Nella ricerca espressiva della giovane artista centrale è dunque l’indagine su di sé, in prima battuta, ma anche l’indagine sul senso dell’essere odierno, sulle relazioni sociali e affettive, per cui i protagonisti delle meditazioni figurative di Daniela potrebbero valere non solo come proiezioni del suo sentimento della vita, del suo riflettere, della sua crescita, bensì come situazioni che l’artista propone allo spettatore, come ipotesi o interrogativi. Non sono da intendere, queste immagini, come risposte trovate dall’artista; non sono soluzioni o punti di arrivo; sono semmai il durante, la raffigurazione di un momento, qualcosa di più, direi, di una domanda o di una proposizione. Sono già interpretazione di una domanda, sono già costruzione di una risposta, sono già evoluzione e risemantizzazione dei turbamenti da cui era nata la domanda stessa. Eppure, nel momento in cui le guardiamo, queste stesse opere ci impongono un arresto: ognuna di esse riscuote delle sensazioni, ci turba con la sua potenza iconica, con la centralità figurativa di cui si diceva. Il corpo raffigurato si fa veicolo di tensioni, si fa simbolo e proiezione di una coscienza riflettente, oltrepassando la dimensione della concretezza e della bellezza terrena. Ognuna di queste opere sembra riformulare la domanda da cui Daniela era partita, la ripropone perché il percorso continui nella nostra personale lettura dell’umanità.

Marzo 2018 Federica Vettori


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