Molte meraviglie sono al mondo, nessuna meraviglia è pari all'uomo" (Sofocle, Antigone, primo stasimo)

L'uomo, essere di perfezione. Armonioso, simmetrico, così equilibrato nella sua dinamica corporea, ha nell'essere psichico una sua vulnerabilità. Il vulnus infatti è un difetto della perfezione. Se l'uomo è per Protagora misura di tutte le cose, per Sofocle è il déinon: mirabile, portentoso, stupendo,  prodigioso, ingegnoso, ma anche terribile, misterioso, tremendo. Quasi un daimon, sorta di angelo incompiuto, diviso tra lo spirito e la materia.
"Il daimon può far ammalare il corpo. E' incapace di adattarsi al tempo, nel flusso della vita trova errori, salti, nodi. Ed è lì che preferisce stare. (James Illman, "Il codice dell'anima").
Chi sono? Che senso ha questa mia esistenza? Qual è la mia direzione?
Sono questi gli interrogativi che danno origine al dramma esistenziale umano. Dal momento che l'uomo non solo sa, ma sa di sapere, e con il sapere, perdendo la sua immediatezza, perviene a una dimensione simbolica e culturale che lo apre al dubbio, alla ricerca. Un logorio della mente, in una condizione di perenne inquietudine, fino all'angoscia. Pur avendo il dono della vita, è un essere che si sente annichilito dalla vita stessa, soprattutto nel mondo occidentale, dove la tendenza a tracciare schemi, cercare simboli, trovare ad ogni costo un senso, genera una costante tensione alla chiarezza, al ragionamento, alla definizione di ogni cosa, che rivela infine un atteggiamento teso a distinguere piuttosto che ad unire.
"Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt - Queste sono le lacrime delle cose e la mortalità ci taglia fino al cuore" (Virgilio, primo libro dell'Eneide)
E' la consapevolezza della caducità che accompagna l'intera storia dell'uomo. Così straziante oggi, in un mondo contemporaneo in cambiamento e  in trasformazione.


E immersa nel suo tempo è Daniela Savini, artista colta e sensibile, attenta all'uomo e alle tematiche che lo circondano. Lontana da qualsivoglia giudizio, è testimone-voce di un disagio esistenziale inesprimibile, perché troppo profondo e oscuro. Il suo processo creativo non è drammatico, è poetico, di grande delicatezza e attenzione. Sebbene tracci e racconti il dolore con le sue agonie, le nevrosi, i tormenti. Non ne fa denuncia, ne prende atto, lo osserva, con compassione. Perché il dolore esistenziale non è mai urlato. E' intimo, privato, muto. Si chiede: "cosa dice il corpo che la parola non dice?". Perché il corpo è la via di transito dell'inespresso. Le figure, che spesso si delineano in penombra, mostrano nella nudità dei corpi il tentativo di liberarsi dei travestimenti imposti dalla società. Savini apre stanze, con mano invisibile, si accosta e accarezza le loro vite. Quasi amore. Tenerezza. Sa che esiste anche una bellezza interiore, nascosta, soffocata dal caos esterno, inquinata dalle voci fuori e dentro quei corpi. Corpi che si aprono, nell'intenzione di manifestarsi, o si chiudono, come in un gesto di protezione, di, a loro volta, tenerezza, pudore. Espansioni e contrazioni. Un movimento che è ritmo, modulazione. Elettrocardiogramma. Quasi respiro. Se provi a stare in silenzio, puoi sentire i battiti, di quei cuori. Suggestioni generate da un chiaro richiamo dell'artista al realismo figurativo, che ci porta istintivamente a immaginare una sacralità iconografica. Figure come martiri, come santi. La stessa arte incisoria, del resto, già reca in sé l'agire della sacralità rituale. Ma  la rappresentazione figurativa, che ha in sé una finalità liturgica - non necessariamente sacra - volta solitamente a costruire l'integrità, qui, mediante il ricorso di Savini alla dissolvenza, rivela, al contrario, che l'uomo è dilaniato, e che la realtà sfugge, è a pezzi. Una labilità che rappresenta la natura effimera dell'istante. L'uomo avverte la precarietà di un'unità che tende a disgregarsi nella più grande solitudine interiore. La definizione dei corpi che improvvisamente frantuma, dissolve, è come una improvvisa linea spezzata. Una disarmonia che funge da richiamo. Un invito. Guardami! Lo spettatore è coinvolto, e il corpo che dissolve tra l'essere e il non essere diventa meditazione sulla vita. Savini attraverso la sua arte induce a riflettere, a specchiarsi in quelle figure, in una ipotetica relazione di immedesimazione. Auspica una umanità consapevole di sé, della propria condizione di dolore, sì, ma che  possa trovare  nella relazione con l'altro e l'oltre sé, il coraggio e l'audacia della speranza. Secondo una visione vicina al pensiero di Helmuth Plessner  e alle teorie dell'antropologia filosofica contemporanea, vede l'uomo riconciliato della sua doppia natura fisica e psichica e in cerca di sé,  attraverso una nuova visione che deriva dal collocarsi in posizione eccentrica, distante da sé, coscienza e divenire, tra le cose del mondo. Una modalità di essere che impone di prendere in mano la propria vita, di progettare un futuro, di aprirsi a delle possibilità. Per Daniela Savini, la possibilità sono i legami. Perché l'uomo esiste veramente solo nelle relazioni e conoscersi è ri-conoscersi, trovarsi. Un processo evolutivo continuo e sofferto, in costante precarietà, tra alienazione e interazione, identificazione e differenziazione, soggettività e oggettività che in qualche modo anela a un punto fermo.

"Il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mescola ai profumi e prende nome dall'aroma di ognuno di essi." (Eraclito)
Quello che Savini propone è un ritorno al gesto semplice, consueto, sincero. A un corpo accettato, possibilmente amato, capace di accogliere e di essere accolto, e lontano da quella percezione distorta che il mondo contemporaneo offre come modello,  privato della sacralità di un tempo, reso oggetto di frustrazione, proiezione di disagio sociale e cumulo di nevrosi. Una nuova nascita. Ri-nascita. Una visione autentica della vita, in un "luogo", reale o figurato, dove avere tempo in assenza di tempo. Dove coltivare  memoria. Per Savini,quel luogo è il vissuto dell'infanzia in terra d' Abruzzo. Terra di avi.  Austera e antica,  e dove il gesto e la parola erano percorsi sapienti, utili, necessari, concreti. Veri.

"Sii affamato, prendi il pane, ritorna a casa, predica, guarisci gli altri, cura te stesso" (Monito di San Sava, da "L'ultimo pranzo", di Miodrag Pavlovic)

 Quasi una "religione del pane". Perchè il pane è gesto semplice, primo. "Il Pane della Vita", è infatti  il titolo  che l'artista sceglie per la sua mostra, non a caso. E' la parola "pane", così antica e carica di simbologia, che reca in sé il significato di essenziale, di necessario, di semplice, quantunque il dono della sua fragranza richieda un processo lungo, faticoso, di sapienza tramandata, di cura. Il pane è veramente il simbolo della trasformazione. Il pane è la vita, e la vita è quel pane da mangiare. L'uomo è quel pane.

Marzo 2018 Domenica Giaco

"Il  Pane della Vita" è un pane semplice, di rustica schiettezza, quello che un tempo si preparava in casa, che lievitava al buio, che si poggiava contro il cuore di chi lo tagliava.  Così lo rappresenta Daniela Savini nell'opera che apre la sua mostra e che da questa prende titolo. Una ventina di incisioni disposte secondo l'andare modulato di una dialettica complessa e articolata che trova la sua ricomposizione nell'opera che conclude: "Vita", l'unica su tela, dipinta a olio, e a colori. "Vita" è un modello di semplicità, lo spazio ritrovato. Quel mistero sacro di cui i bambini, vicini alla nascita e al limitare della non-esistenza, sono messaggeri di speranza e ugualmente portatori di futuro, con la loro purezza e innocenza di cuore.
Una sintassi articolata, sorretta da una alternanza ritmica di contrazioni e dilatazioni, predisposta in una geometria che dà uniformità e coerenza allo sviluppo del pathos man mano emergente. Un percorso che si può definire circolare, perchè sostanzialmente inizio e fine coincidono fino a sovrapporsi nel significato. All'interno invece, le tensioni, le pause, il tormento di creature improvvise, spesso interrotte,  e nel tentativo di trattenere il sé dell'effimero istante, o vanamente, di sottrarlo alla caducità. Alcune si pongono invece come momenti  di riflessione. "Il Bibliotecario", ad esempio. Le mani in primo piano, robuste, come da artigiano, vogliono forse dire che non basta il sapere, ci vuole il fare, e che il sapere è il costruire, non solamente il custodire. L'omaggio infine che l'artista fa a F. Woodman e a Louise Bourgeois, è  citazione significativa, a sostegno dell'impianto. Come fossero due colonne che sostengono il tempio. Se il processo creativo è verità, per Savini  è rivelazione della verità dell'esistenza, attraverso l'incisione che è scrittura. E due sono le possibilità. La ricerca sul corpo-labirinto di F. Woodman, che è perdersi in una lucidità che non salva, perchè brutale conoscenza di sé che apre le porte alla follia, all'omicidio, o, come nel suo caso, al suicidio.  O, al contrario, L. Bourgeois, che opera attraverso l'arte un percorso di salvezza dalle sue ossessioni, che le farà dire: "fare arte è un atto di sopravvivenza, una garanzia di salute mentale, la certezza che non ti farai del male e che non ucciderai nessuno". La consapevolezza della fragilità del vivere, onorando la vita, che è comunque dono. In questo verso D. Savini ha visione. "Tempora enim sunt" ( E' ora il tempo)